Una testimonianza sul rito martinista – Samas S:::I:::
Il latino “Testis” significa “testimone”, etimologicamente rendibile come “il terzo presente”.
Il prefisso “te“, da cui appunto osserviamo derivare in italiano parole come terzo e ternario, è considerato dagli studiosi proveniente da un più antico “tri” (si pensi appunto alle parole tris e trinitas).
Mentre la restante parte della parola “stis” è un sostantivo che deriva dalla radice indoeuropea “stā ” che appunto possiamo rendere intuitivamente con “stare“[1].
Ma indagando quindi meglio la radice “stā” se ne scopre il senso originario, forse più evocativo, di “essere” o “rendere fermo”, “saldo”[2].
Il sostantivo “testimone” è quindi il “3 che è”, il famoso (o incognito) ‘terzo’ che con la sua presenza rende stabile, addirittura reale, la presenza di “altri due” con i quali “sta” e dei quali “stabilisce” la loro effettiva verità e sostanza.
Ancora di più, per estensione: il “testimone“, appunto, è colui infine che riporta, che referenzia, verso eventuali “infiniti altri”[3].
Vedremo ora di calibrare su alcuni aspetti della ritualità martinista delle brevi considerazioni, avendo come fulcro quanto si è appena cercato di portare all’attenzione.
Sulla croce cabalistica
Essa è dei nostri riti quasi sempre principio e fine. Anche qui dobbiamo inventarci ben poco e una scorsa ai nostri vademecum ci dice che essa è di per sé già un rituale, “una chiave per delimitare e focalizzare la sacralità del pensiero, del gesto, della parola e di quanto si sta ponendo in atto (azione)”.
Teniamoci innanzitutto stretto il riferimento al pensiero, al gesto, alla parola e andiamo più in profondità.
Nei momenti iniziali in cui segniamo e nominiamo ATEH (Tu sei) e MALKUTH (Il Reame), dopo alcuni passaggi passiamo ad un segno universale, il cerchio.
Sono numerose ad esempio le applicazioni magiche e le considerazioni intellettive su questo tracciamento: sparigliamone qualcuna.
Vediamo allora (PENSIERO) che il cerchio è per sua natura, o per nostra idea – la differenza è forse nulla – un simbolo di perfezione, di circoscrizione e di totalità.
Come potremmo allora escludere dalla nostra ritualità di attivare questo simbolo, appunto mediante il (GESTO)?
Sistemati quindi pensiero e gesto, passiamo alla (PAROLA) che sembrerebbe dare un’ulteriore conferma: LE OLAM (Per Sempre).
Quindi la totalità spaziale del simbolo che tracciamo, insieme all’eternità che proferiamo; il senso è sempre quello: è necessario “attivare” l’universalità, sia essa intesa in termini di forma perfetta, di totalità dello spazio o di eternità rispetto al tempo.
Rispetto a questo ultimo punto, non è un segreto che il rito dovrebbe in qualche modo spezzare la nostra concezione lineare del tempo e portarci quindi in una percezione altra; in un atteggiamento mentale ben lontano dalle modalità di coscienza condizionata che, volenti o nolenti, esercitiamo per buona parte della giornata.
E qui arriviamo al primo tema di meditazione che viene proposto: sotto l’aspetto della tecnica rituale, potremo mai concludere il “rito della croce cabalistica” solo con la tracciatura del cerchio?
Per fortuna non siamo tenuti, se non per crescita e scelta personale, a rispondere a questa difficile domanda perché l’istruzione, la tecnica tramandata, è invero chiara e sta lì forse apposta anche per insegnarci qualcosa: si conclude cioè congiungendo le “due mani”, in segno di evidente presenza: AMEN (Così sia).
AMEN (Così sia): Qualcosa o qualcuno viene a “stabilire”, a contemplare, a decretare, a sigillare una presenza nella croce particolare e nel cerchio universale appena tracciati.
Se ciò non avvenisse probabilmente non avremmo alcuni aspetti della “chiave” di cui parlano i nostri vademecum.
A valle di un segno di individuazione (la croce) e uno di totalità imperante (il cerchio), possiamo vederne seguire uno conclusivo, se vogliamo appunto, di testimonianza: le mani sono giunte, tutto è calmo e in pace, tutto è giusto e perfetto; non c’è altro “da fare” a questo punto se non, innanzitutto, esserci.
Concludiamo questo breve spunto con la ulteriore considerazione che tutto ciò che avviene si conclude all’altezza delle mani giunte; ovvero l’essere, il nostro stare che andrà ad operare, sembra collocarsi simbolicamente e fisicamente tra i due ‘punti’ di ATEH e MALKUTH, di cui renderà testimonianza.
Sul I° salmo
“Beatus vir..”. Così comincia il I° verso del I° salmo.
È interessante. Siamo ormai giunti nei nostri riti in un luogo interiore in cui tutte le chiacchiere, comprese quelle di cui sopra, hanno fatto il loro tempo.
Non ci sono dotte citazioni da postare sui social, non ci sono persone altre da affascinare, non ci sono altri libri da leggere o i riflessi psichici di questa o quella casistica umana.
Eppure non siamo scappati dal mondo, anzi. Siamo dove abbiamo scelto di stare e dove probabilmente facciamo “bene” ad essere: siamo presenti ad un mistero che stiamo vivendo, non solo in un mistero esclusivamente mentale da risolvere.
Siamo in una Conciliazione con la Coscienza.
E quindi potremmo aggiungere, il rito come testimonianza è anche la celebrazione di questo stato coscienziale.
Così allora della cosiddetta preghiera. Una preghiera o un rito per ottenere, per separare un Dio vissuto come “altro” dalla nostra presenza, addirittura per servire un culto, è davvero un atto totale, o almeno efficace, di Presenza?
Difficile non essere equivocati, ma è certo che i nostri riti sembrerebbero lontani da operatività e da dualità tipiche “di un mondo dove Dio è presente e un mondo dove Dio è assente”.
“Beatus vir…”, ecco la base che viene gettata, piuttosto. È un punto di “ringraziamento”, qualcosa di profondamente non-duale messo immediatamente davanti i nostri occhi.
Poi tutti quei NO di ammonimento per non seguire gli empi, non indugiare sulla via dei peccatori, di non sedere “nella stoltezza”! Ma non vi è presenza di un Dio che ammonisce o un uomo in conflitto che declama versi.
Il I° salmo sembra appunto una descrizione, una testimonianza. Nella quale addirittura come prima parola si osa richiamare la beatitudine[4]: sul percorso della reintegrazione vi è un Uomo che si riconosce e può riconoscere la Via, anche in quei versi, perché la sta percorrendo, perché ‘È’ proprio in quell’esatto momento.
Le prime parole proferite dal salmista possono quindi senz’altro essere lette come un “atto di testimonianza”, o almeno questo è lo spunto che si vuol portare con la presente meditazione.
Non sarà poi difficile scoprire nei salmi numerose simili attitudini, già dai primissimi versi: “Ecce quam bonum…”, “Ecce nunc…” e così via.
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Sull’accensione di una candela
Interessante infine il rapporto tra la ritualità e la cosiddetta materia.
Qualsiasi sia il nostro percorso, le nostre realizzazioni anche intellettive, le nostre illusioni, qualsiasi sia ciò che ci fa diversi o ci accumuna, i significati ultimi appartengono ad una sfera interiore che il rito permette di vivere, meditare e testimoniare attraverso anche degli strumenti: dei significati e dei significanti comuni e cosiddetti tradizionali, perché appunto tramandati di generazione in generazione, di lignaggio in lignaggio.
Questo è il motivo per cui abbiamo accennato precedentemente di una tecnica da apprendere e cercare di rispettare, perché è da considerarsi tramandata ma soprattutto tramandante, cioè vivente, “in-segna” in un certo senso sempre, anche e soprattutto durante lo svolgersi di un rito.
Non certo perché la particolare tecnica vince sulla nostra libertà, ma perché la tecnica di una tradizione l’abbiamo scelta noi: ci risulta congeniale proprio come ausilio e stimolo a quello che vogliamo perseguire. Capendo perché viene indicato di fare così e non cosà, oppure perché se opero così “viene meglio” che cosà, vi è una consapevolezza in azione; vi è inoltre qualcuno che sempre osserva la persona profana e la persona sacra che siamo[5]: vi è un Testimone che via via si reintegra e reintegra nell’osservare, nello studiare, nel sentire, nel testimoniare.
Riguardo l’esoterismo operativo, in particolare stiamo parlando delle esperienze dei riti martinisti, siano essi individuali o collettivi di loggia, non è una novità dire che queste esperienze siano in larga parte non comunicabili. In quanto cosa davvero avviene interiormente è fruito e vissuto da una coscienza, ogni volta meravigliosamente irripetibile, che è Soggetto, Oggetto e Testimone; che mai potrà solo con le parole degnamente e completamente condividere o dettagliare.
Esistono forse, e lo diciamo a vantaggio dei tanti aspiranti “laureandi in esoterismo”, altre modalità di comunicazione. In cui il “ruolo” della materia può essere curiosamente vagliato. E ci avviciniamo quindi pian piano al terzo tema di meditazione che sarà proposto come una domanda aperta.
Possiamo certo parlare del colore di una candela, del suo materiale, della sua storia, delle sue referenze simboliche, del suo apparato mitologico, perché è rossa e non blu per quella particolare occasione.
È utile, certo! Ci contestualizza, ci accumuna, ci dona un linguaggio comune e spunti di ragionamento. Ma l’operatività, il rito, la presenza sono altro: sono “oltre”. Ecco forse il rito martinista ed alcuni riti martinisti più di altri, sono un chiaro esempio di quello che potremmo chiamare Alchimia[6].
E appunto l’alchimia a studiarla sui libri, tutti gli autori classici ci dicono ci si romperà solo la testa, o si diventerà al più vili soffiatori. E però… sempre tramite gli autori classici possiamo desumere qualcosa come: “non solo la scienza alchimica proclama l’unità della materia, ma testimonia dell’unione della materia e della coscienza”. È interessante.
Cosa “sta” davvero succedendo, dunque, quando si accende una candela?
[1] The American Heritage® Dictionary of the English Language, Fifth Edition copyright ©2022 by HarperCollins Publishers.
[2] Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, Copyright 2004-2008 Francesco Bonomi.
[3] Cfr. “Il Dao produce l’Uno, l’Uno produce il Due, Il Due produce il Tre, Il Tre produce i Diecimila esseri” dal cap. 42 del Daodejing.
[4] Non sarà difficile per chi ha studiato qualcosa dell’induismo notare a questo punto il nitido parallelismo tra alcuni aspetti rituali e la concezione, o meglio l’esperienza finale, di “Brahman” come Sat-Chit-Ananda (Essere – Coscienza – Beatitudine).
[5] Cfr. Rémi Boyer, Maschera, Mantello e Silenzio.Il Martinismo come via di risveglio, Tipheret, Acireale-Roma, 2012, p. 58 (“La teoria delle tre persone”) e anche pag. 84 (“Giovanni è il testimone”).
[6] L’Alchimia è qui intesa come un’interazione Reale con la materia, con il suono e, soprattutto, con la luce.